Il 7 ottobre dello scorso anno, una serie di attacchi terroristici coordinati da Hamas ha costituito l’innesco per una nuova spirale di violenza nello storico conflitto tra Israele e Palestina. La risposta israeliana ad Hamas non si è fatta attendere, con bombardamenti massicci sulla Striscia di Gaza e incursioni che hanno provocato innumerevoli vittime civili, distruzioni ingenti e una intollerabile crisi umanitaria. La situazione è presto degenerata, con l’apertura di nuovi fronti di conflitto: il coinvolgimento dell’Iran e l’intensificarsi delle tensioni lungo il confine settentrionale di Israele con il Libano.
La comunità internazionale ha più volte invocato il cessate il fuoco e richiesto una mediazione in linea con le risoluzioni ONU, ma le divisioni tra gli Stati, particolarmente evidente tra quelli europei, e l’inefficacia del Palazzo di vetro nell’imporre una linea comune hanno portato a un nulla di fatto. Mentre le vite dei civili hanno continuato a essere spezzate, la diplomazia mondiale è rimasta incagliata tra posizioni divergenti e interessi politici, dimostrando ancora una volta i limiti strutturali del sistema internazionale.
Sarebbe presuntuoso pensare che con la sola coesione strategica della comunità internazionale, con specifico riferimento all’Occidente, si possano calmare le acque in una regione dalla storia tanto complessa. Eppure questo ragionamento deve necessariamente svolgersi. Risulta infatti ai nostri occhi incomprensibile come, in questo momento, non vi sia una seria volontà degli attori direttamente coinvolti nel conflitto per fermare le ostilità.
Centinaia di ostaggi israeliani sono ancora trattenuti prigionieri e non è dato sapere quale sia il loro stato di salute, mentre l’emergenza umanitaria nella Striscia di Gaza ha assunto proporzioni mai viste, con anziani, donne e bambini privati del necessario per sopravvivere e un’intera popolazione intrappolata in una morsa di violenza e distruzione. Parallelamente, l’escalation regionale rischia di sfuggire a ogni forma di controllo, mentre la vita politica interna sta assorbendo l’attenzione dell’Occidente, con l’incognita pesante dell’esito delle elezioni presidenziali americane che potrebbe determinare una svolta radicale in politica estera.
Il rispetto del diritto internazionale e la protezione delle popolazioni civili devono diventare priorità ineludibili: qualsiasi ulteriore azione che causi sofferenze e perdite di vite umane tra i civili è inaccettabile e deve essere fermata immediatamente. L’Unione europea, in particolare, è chiamata a svolgere un ruolo più incisivo e proattivo, adottando una posizione unitaria per sostenere una soluzione pacifica e duratura del conflitto. Tale impegno deve manifestarsi sia a livello di organizzazione sovranazionale sia tramite l’azione concertata dei singoli Stati membri, con una voce chiara e determinata in ogni sede internazionale.
Specialmente in un contesto in cui i leader regionali sembrano incapaci di andare oltre la logica della guerra perpetua, è indispensabile chiedere un cambio di paradigma; l’Unione europea, insieme agli attori internazionali disposti a impegnarsi per una pace duratura, può e deve proporsi come forza promotrice di un nuovo assetto regionale, fondato sul rispetto reciproco e sul dialogo. Un contributo che non solo porrebbe fine alle violenze, ma potrebbe essere il primo passo verso una stabilità duratura e condivisa, nell’interesse di tutti i popoli coinvolti. Tuttavia, guardare al futuro richiede anche il coraggio di riconoscere i limiti attuali dell’Unione europea e di ripensare la sua struttura: solo una vera competenza sovranazionale e autenticamente europea in politica estera permetterà all’Unione di essere un attore credibile e influente, capace di contribuire concretamente alla pace e alla stabilità globali.
Emanciparsi o soccombere: le due alternative per l’Europa dopo l’elezione di Trump
Nelle elezioni presidenziali statunitensi, Donald Trump ha sconfitto Kamala Harris, tornando alla Casa Bianca. Durante il suo primo mandato, i rapporti tra Stati Uniti e Unione europea si erano deteriorati, e il rischio è che il suo ritorno possa aggravare la mancanza di cooperazione transatlantica.
La Gioventù Federalista Europea sollecita i Capi di Stato e di Governo dell’Unione europea a intraprendere riforme strategiche e strutturali, affinché l’Unione possa affermarsi come attore globale forte e autonomo, e a non abbandonare il lavoro portato avanti in questi anni, nel sostegno all’Ucraina e nella promozione di politiche comuni.